Skip to main content

Autore: admin

Le implicazioni penali in capo ai tecnici asseveratori

La normativa che disciplina la materia dei c.d. “superbonus” ha introdotto una serie di nuove fattispecie penali, tra cui quella qui in commento delle false informazioni in asseverazioni del tecnico abilitato, di cui all’art. 119, comma 13 bis-1 del D.lgs. 34/2020 come introdotto dall’art. 28 bis, co. 2, lett.a) del D.L. 41/2022.

Ai sensi dell’articolo suddetto, “il tecnico abilitato che, nelle asseverazioni di cui al comma 13 e all’art. 121, co. 1 ter, lett.b), espone informazioni false o omette di riferire informazioni rilevanti sui requisiti tecnici del progetto di intervento o sulla effettiva realizzazione dello stesso, ovvero attesta falsamente la congruità delle spese, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 euro a 100.000 euro. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri la pena è aumentata”.

In realtà detta norma non è totalmente nuova, in quanto è stata mutuata dal nostro Legislatore dall’art. 236 bis del R.D. 267/1942 (c.d. Legge Fallimentare), che appunto punisce (parimenti) le false attestazioni del professionista incaricato di redigere le attestazioni e le certificazioni imposte dalla legge per consentire l’accesso delle imprese alle procedure concorsuali della crisi.

Si tratta di un reato proprio, ovvero che può essere commesso solo da coloro che rivestono la qualifica di “tecnico abilitato”, ovvero quel soggetto abilitato alla progettazione di edifici e impianti nell’ambito delle competenze ad esso attribuite dalla legislazione vigente e iscritto a specifici ordini e collegi professionali (in sostanza ingegneri, architetti, geometri, ognuno nell’ambito delle proprie competenze).

Dal punto di vista oggettivo, l’attività tipica in cui è possibile incorrere nel reato in argomento è quella della asseverazione, ovvero (secondo il Decreto Mise del 6.08.2020) la dichiarazione sottoscritta dal tecnico abilitato, ai sensi e per gli effetti degli art. 47,75 e 76 del D.P.R. 445/2000, con la quale lo stesso attesta che gli interventi trainanti che beneficiano dei vari bonus sono rispondenti ai requisiti previsti dalla legge e che i costi sono congrui rispetto ai costi specifici indicati.

Più in particolare, l’attività di asseverazione consiste, quanto al c.d. ecobonus, nell’attestazione dei requisiti tecnici (e relativa congruità dei costi) che devono essere soddisfatti dagli interventi edilizi affinché possano beneficiare delle agevolazioni; quanto al c.d. sismabonus, nell’asseverazione dell’efficacia degli interventi progettuali al fine della riduzione del rischio sismico.

In sostanza, le condotte punite nell’ambito dell’attività di asseverazione sono: l’esposizione di informazioni false, l’omissione di informazioni rilevanti sui requisiti tecnici del progetto di intervento e sulla effettiva realizzazione dello stesso e la falsa attestazione circa la congruità delle spese.

Generalmente, l’individuazione delle false informazioni non desta particolari problemi qualora le informazioni attengano a dati, misure, qualità, tipologia e consistenza degli interventi o degli edifici sui cui gli interventi stessi vengono effettuati, elementi questi tutti oggettivamente misurabili.

Ben più complessa invece è l’individuazione della condotta incriminata qualora non si tratti di dati fattuali, ma di valutazioni che il soggetto attivo è chiamato a rendere, come ad esempio, la classificazione sismica di un edificio ante intervento e post-intervento, la classe di rischio e gli effetti di mitigazione del rischio.

In tutti questi casi si parla di falso valutativo, poiché la falsità non attiene ad un dato fattuale, ma ad una valutazione espressa da un essere umano.

Al riguardo, vengono in soccorso gli stessi canoni elaborati dalla giurisprudenza in materia di false comunicazioni sociali, ed in particolare:

il criterio del “vero legale”, secondo cui non si incorre in falsità allorquando il dichiarato risponda integralmente ai criteri di legge che regolano la materia; e

il criterio della ragionevolezza, in virtù del quale è punibile sola la dichiarazione falsa che si discosti dai criteri redazionali normativamente previsti per ragioni non razionalmente spiegabili.

Proprio a quest’ultimo criterio si rifà la Suprema Corte di Cassazione (con la sentenza n. 22474/2016) laddove ha ritenuto sussistente, ai fini dell’applicazione del delitto di false comunicazioni (sociali), il falso valutativo nel momento in cui “l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”.

In altri termini, il tecnico abilitato risponderà penalmente del reato in discorso laddove, da un lato esponga dati (falsi) in quanto oggettivamente difformi dalla realtà, ovvero dall’altro compia una valutazione applicando criteri, regole e principi tecnici e/o giuridici difformi da quelli individuati dal Legislatore e dalla Pubblica Amministrazione e qualora questi ultimi non lascino un libero margine di discrezionalità, essendo l’interpretazione univoca ed immediata.

Filippo Nava – DSTeam Avvocato Penalista

La qualifica dei fornitori e la vigilanza sono indispensabili per acquisire e completare incarichi in piena tranquillità!

È chiaro a tutti, quasi scontato, quanto sia importate avvalersi di fornitori qualitativamente qualificati al “giusto prezzo”.

Il successo di una impresa, infatti, dipende dal servizio, prestazione o prodotto che offre e del quale si rende responsabile.

Questo accade sia se svolgiamo tali attività con nostro personale ovvero avvalendoci di partner esterni.

Lo stesso ragionamento si applica a quelle attività di “supporto” al nostro lavoro o a quelle attività che hanno lo scopo di realizzare, migliorare o manutenere luoghi, strutture, attrezzature e spazi dove operiamo insieme al nostro personale.

Per lo stesso motivo la possibilità di acquisire incarichi o appalti da parte di imprese pubbliche o private porta con sé una serie di criticità che potremmo riassumere nella così detta: “responsabilità solidale degli appalti”.

Se un artigiano, una azienda di pulizie o un prestatore d’opera acquisiscono un incarico che viene svolto, in tutto o in parte, presso una nostra sede acquisiamo, con l’acquisizione della prestazione, una serie di responsabilità che possono avere risvolti di carattere civile,  penale,  giuslavoristico o amministrativo.

Tutte di rilevante importanza.

La domanda, allora, è: come può tutelarsi un Ente Pubblico o un’azienda, pubblica o privata, che si rivolge ad un soggetto terzo, ad un fornitore?

Come può il Committente ridurre, al minimo, il trasferimento di responsabilità a suo carico?

La soluzione è semplice se progettata e prevista tempestivamente.

Il primo consiglio è quello di attivare un “albo fornitori qualificati” nel rispetto, tra gli altri dei requisiti della Norma Tecnica UNI EN ISO 9001. Tale requisito è ampiamente diffuso, anche se applicato in modo disomogeneo, da parte degli Enti Pubblici.

Di cosa si tratta?

L’albo fornitori è un elenco di POTENZIALI fornitori che ho, PREVENTIVAMENTE sottoposto a verifica e che, PERIODICAMENTE, valuto e qualifico (o riqualifico) dal punto di vista del rispetto degli standard di qualità (efficacia ed efficienza) e di sicurezza (rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti dalle norma cogenti in essere).

Da questo punto di vista il limitarsi a raccogliere delle autocertificazioni ovvero ad una qualifica di tipo “storico” senza sottoporre il sub appaltatore ad una verifica più approfondita magari sorvolando su di un’attività di vigilanza. Facendo finta di non vedere l’incoerenza tra quanto autocertificato e i comportamenti reali, riteniamo sia ESTREMAMENTE PERICOLOSO.

Numerose sono le sentenze che confermano quanto sopra indicato.

D’altro canto basti ricordare che il potere economico: stabilire, ad esempio, importi, tempi di corresponsione del compenso, tempi di realizzazione delle attività sono uno strumento di condizionamento (esplicito o implicito) dell’autonomia imprenditoriale del sub appaltatore.

Certamente, l’entità del compenso richiesto NON può e NON deve essere il motivo principale di una scelta.

Per tutti questi motivi il nostro consiglio è costruire una attività di qualifica del proprio fornitore realizzata in maniera estremamente rigorosa aiutando lo stesso, ove necessario, a fornire tutte le informazioni richieste.

Ma in pratica cosa chiedere?

Ad esempio:

  1. La visura camerale per verificare che la prestazione e il codice Ateco di registrazione siano compatibili con quanto il prestatore d’opera intende fare (dalla visura si ha la conferma che l’impresa è operativa e non in liquidazione, si ha la conferma dei legali rappresentanti che poi sottoscriveranno contratti, autocertificazioni o dichiarazioni, dell’oggetto sociale coerente con l’incarico che si intende affidare).
  2. Una presentazione della società (un curriculum, potremmo dire) con dettaglio delle opere e attività svolte dal punto di vista sia del volume d’affari, delle giornate/uomo, ma anche del personale impegnato (qualità e quantità)  per capire se il sub appaltatore ha le risorse (non solo il personale ma anche le attrezzature e le risorse finanziarie) per poter completare, in sicurezza, l’incarico.
  3. Il Documento Unico Regolarità Contributiva (INPS e INAIL) cosiddetto DURC al fine di evitare eventuali azioni di rivalsa da parte di lavoratori, verso il Committente, quale tutela del proprio diritto alla pensione.
  4. La documentazione della sicurezza: estratto DVR con i processi di lavoro che verranno sviluppati oppure una o più procedura che descrivano le attività svolte, le sostanze e le attrezzature che verranno utilizzate presso il Committente (questo anche al fine di predisporre il Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenti (DUVRI), l’assolvimento degli obblighi formativi, le idoneità sanitarie, le coperture assicurative, ecc.

Per ognuno di questi aspetti si potrebbero approfondire le ragioni del requisito: ciò che conta è che, alla fine, la limitazione dei rischi indotti è possibile solo se, svolta la meticolosa qualifica del fornitore, il Committente provvederà ad incaricare il proprio Preposto per una vigilanza sul campo.

Quest’ultimo aspetto è stato ribadito dalla recente riforma del Testo Unico (D.lgs. 81 del 2008) tramite la legge n. 215 del 17 dicembre 2021 che IMPONE l’identificazione di un preposto, ne ricorda gli obblighi formativi e, prima volta nella storia della sicurezza sul lavoro, IMPONE la formazione OBBLIGATORIA DI TUTTI I Datori di Lavoro in materia di sicurezza sul lavoro.

Il legislatore ha voluto così porre un freno ai numerosi e gravissimi infortuni sul lavoro degli ultimi mesi. Basterà?

Su quanto scritto potete sicuramente trovare conforto da casi trattati in tribunale dagli avvocati Marotta, Nava e Cuminetti che fanno parte, come il sottoscritto, di DSTeam.

Un salto di qualità lo potremo vedere solo dopo una presa di consapevolezza generale del Paese e un cambio di cultura. Ma questo impegna ogni Cittadino, fin da subito, a fare la sua parte.

Francesco De Lucia – DSTeam Sicurezza sul lavoro

Le tabelle di Milano restano il punto di riferimento per la quantificazione del danno non patrimoniale

Le tabelle di Milano rappresentano uno strumento per calcolare gli importi dovuti a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale a seguito di sinistri stradali o per responsabilità medica.

In sostanza i suddetti strumenti si fondano sulla quantificazione in termini percentuali dell’invalidità riportata dal danneggiato, attribuendo un determinato valore economico a ciascun punto e rapportandolo all’età del danneggiato.

La Corte di Cassazione ha recentemente stabilito che le tabelle meneghine devono rimanere il punto di riferimento per ogni quantificazione del danno non patrimoniale fatta eccezione per il danno da perdita parentale che consiste nel nocumento subito dai parenti a seguito della morte di un congiunto causata da un sinistro stradale o da un caso di malasanità.

A tale ultimo proposito i Giudici della Suprema Corte (Cass. n. 33005/2021) hanno stabilito che il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella (quella di Roma) basata sul sistema cosidetto a “punti” che vengono calcolati tenendo conto dell’età della vittima, dell’età dei congiunti superstiti, il grado di parentela e la convivenza con la possibilità di applicare sull’importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione.

I richiamati principi guideranno senz’altro i vari Tribunali di merito nei giudizi aventi ad oggetto la quantificazione del danno non patrimoniale e parentale contribuendo a limitare ingiustificabili disparità di trattamento.

La confusione nella scelta degli strumenti da utilizzare nella quantificazione del danno ha, infatti, spesso condotto i vari Tribunali nazionali a quantificare in modo completamente diverso danni del tutto simili.

Alberto Marotta – DSTeam Avvocato Civilista

Le nuove frontiere del bullismo nell’era di internet

Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Indifesa, in occasione della giornata nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo (tenutasi il 7.2.2021) è emerso che il 68% dei ragazzi intervistati ha dichiarato di aver sentito parlare, o di aver assistito, a fenomeni di cyberbullismo, il 61% di esserne stato vittima, il 42% di aver patito una qualche sofferenza psicologica e il 44% delle ragazze di aver provato disagio per commenti non graditi a carattere sessuale. Di contro, solo l’11% dei ragazzi maschi, e l’8% delle femmine, ha dichiarato di essere stato autore di atti di bullismo o cyberbullismo.

Il fenomeno è dunque grave, perché dilagante e insidioso. E’ all’evidenza un fenomeno dilagante, per via del sempre più diffuso uso (o forse meglio abuso) di internet e dei devices da parte di una platea di ragazzi sempre più giovani. È un fenomeno insidioso, invece, per via del filtro mediatico che il mezzo telematico crea tra l’agente e la vittima, che da un lato porta l’agente a ritenere meno gravi certe azioni (c.d. “meccanismo della deresponsabilizzazione”) e dall’altro infonde nella vittima un senso di malriposta fiducia e sicurezza nei confronti dell’agente. In sostanza, l’agente è portato a pensare che le proprie condotte siano meno violente e quindi meno dannose, quando invece è vero il contrario. La pubblicazione on line di contenuti “offensivi” e, soprattutto, la condivisione da parte di una platea indeterminata di soggetti, rende il diritto all’oblio (cioè il diritto di essere dimenticato, ovvero di non essere ricordato per un fatto specifico) sempre più di difficile da assicurare.

Per questi motivi, il Legislatore ha promulgato la legge n. 71/2017 intitolata appunto “disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”.

Ai sensi della suddetta legge, per cyberbullismo si intende “qualsiasi forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali, in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore, il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo” (Art. 1).

Dunque, ai sensi della lelle n. 71/2017, assurgono a fattispecie legalmente rilevanti ipotesi che non potrebbero rientrare nella già esistente casistica prevista dal nostro codice penale.

In particolare, costituiscono cyberbullismo e sono quindi illeciti, i comportamenti qualificabili come:

il Flaming, ovvero l’invio di messaggi violenti e volgari che mirano a creare contrasti anche sociali (è il caso di chi fa un commento, o una serie di commenti, su un social network al fine di suscitare una sequela sempre più grave di commenti ingiuriosi e minatori, e così causare vere e proprie battaglie verbali on line;

l’Harrasment, ovvero l’invio ripetuto di messaggi offensivi o sgradevoli tali da risultare molesti;

la Denigration, ovvero l’insultare o il diffamare qualcuno on line per mezzo di maldicenze, pettegolezzi, menzogne, a carattere offensivo e crudele;

l’Impersonation, ovvero il furto di identità attraverso l’accesso non autorizzato ad account altrui, utilizzando password o codici segreti;

l’Outing, ovvero il divulgare segreti altrui soprattutto se riguardano tendenze o preferenze a carattere sessuale;

l’Exclusion, ovvero l’atto di escludere intenzionalmente qualcuno da un gruppo (anche virtuale) di persone;

il Cyberstalking, ovvero l’invio ripetuto di massaggi intimidatori contenenti minacce e offese, tali da ingenerare nella vittima un senso di timore e di disagio.

Molto spesso, tuttavia, le suddette condotte, per le modalità con cui vengono poste in essere, assurgono a vere e proprie fattispecie di reato, ed in particolare: le illecite interferenze nella vita privata (Art. 615 bis c.p.), la diffamazione a mezzo stampa (Art. 595 c.p.), gli atti persecutori (Art. 612 bis c.p.), la sostituzione di persona (Art. 494 c.p.), la pedopornografia (Art. 600 ter e 600 quater c.p.) e l’accesso abusivo ad un sistema informatico (Art. 615 ter c.p.). Tutti reati questi che prevedono pene edittali che vanno da 6 mesi di reclusione (per le ipotesi meno gravi) ai 6, e anche 12 anni di reclusione (nel caso della pedopornografia).

Al riguardo, trattandosi di reati di cui possono essere autori anche i minorenni, è bene precisare che il limite dell’imputabilità è stabilito dal nostro codice penale al compimento del 14 esimo anno di età. Ciò significa che ragazzi anche molto giovani possono essere oggetto di indagini preliminari e successivamente imputati in un processo penale avanti il Tribunale per i Minorenni competente per luogo. Parimenti, per i fatti di cyberbullismo, tale limite di età è anche dettato per l’esercizio (in via autonoma) del diritto di sporgere denuncia.

La denuncia è ad oggi il più “forte” strumento messo a disposizione dall’ordinamento per contrastare il fenomeno del cyberbullismo, sia perché la denuncia sporta avanti la Polizia Postale (particolare sezione della Polizia di Stato che si occupa di tali crimini) permette, sia la raccolta di dati (informatici) necessari a fini probatori e quindi anche all’individuazione del soggetto responsabile, sia la cancellazione di pubblicazioni (di testi e immagini) dannose.

Oltre alla denuncia in sede penale, proprio la legge 71/2017 prevede anche un’ulteriore serie di strumenti a disposizione della vittima di atti di cyberbullismo, tra cui:

l’istanza o richiesta da parte del minore ultraquattordicenne (o dei suoi genitori) al gestore dei servizi internet o provider di oscurare, rimuovere o bloccare qualsiasi dato personale del minore diffuso nella rete internet;

l’informativa alle famiglie dei minori coinvolti in atti di bullismo o cyberbullismo e l’adozione di adeguate azioni di carattere educativo ad opera del dirigente scolastico che venga a conoscenza  degli atti di cui sopra;

l’ammonimento ad opera del Questore, il quale può convocare presso di sé il minore responsabile di bullismo o cyberbullismo, unitamente ai propri genitori,  e formalmente ammonire lo stesso affinché non reiteri le condotte già poste in essere.

In conclusione, la legge n. 71/2017 ha certamente il merito di delineare e descrivere alcune condotte che, anche solo per la recente emersione, non potevano essere contemplate dal nostro codice penale, ma altresì di prevedere una serie di interventi che, unitamente alla “classica” denuncia, possono essere adottati per la tutela delle vittime di bullismo e, in particolare, di cyberbullismo.

Filippo Nava – DSTeam Avvocato Penalista

Infortuni sul lavoro e malattie professionali: disciplina e cenni processuali

Tra le principali forme di tutela previdenziale rientra certamente l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali di cui al DPR n. 1124 del 30 giugno 1965.

Tale normativa è finalizzata a indennizzare, mediante l’erogazione di prestazioni sanitarie ed economiche, le conseguenze negative di eventi quali l’infortunio o la malattia professionale.

Per infortunio sul lavoro si intende ogni lesione del lavoratore originata, in occasione di lavoro, da una causa violenta da cui può derivare la morte o un’inabilità al lavoro che può essere:

– permanente (assoluta o parziale);

– temporanea assoluta, con astensione dal lavoro per più di 3 giorni.

Deve sussistere un nesso causale, quanto meno mediato ed indiretto, tra attività lavorativa e sinistro: non è sufficiente la sola circostanza che l’infortunio sul lavoro avvenga durante e sul luogo di lavoro.

Deve, inoltre, ricorrere un rischio specifico o un rischio generico aggravato dal lavoro e non un mero rischio generico incombente sulla generalità delle persone (indipendente dalla condizioni peculiari del lavoro).

Occorre, altresì, sottolineare che il comportamento colposo del lavoratore infortunato, consistente ad es. in atti di imprudenza, negligenza e imperizia, non esclude il rapporto di causalità.

La riforma del 2000 (cfr. D.Lgs. 38/2000) ha per la prima volta legislativamente inserito nella tutela assicurativa l’infortunio in itinere, vale a dire quello occorso ai lavoratori durante il “normale percorso”:

– di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro;

– che collega due luoghi di lavoro, in caso di lavoratore con più rapporti di lavoro;

– di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti, in mancanza di un servizio di mensa aziendale.

Senza dilungarci ulteriormente sulla normativa relativa all’infortunio in itinere, in questa sede è necessario specificare che gli infortuni occorsi ai lavoratori in missione o in trasferta si considerano avvenuti in occasione di lavoro e non in itinere (vedasi Circolare INAIL 23 ottobre 2013 n. 52).

Le modalità di svolgimento della missione o trasferta, infatti, sono imposte dal datore di lavoro, con la conseguenza che tutto ciò che accade nel corso della stessa deve essere considerato come verificatosi in attualità di lavoro.

È tuttavia esclusa l’indennizzabilità di un infortunio occorso ad un lavoratore in missione o trasferta quando l’evento:

– si verifica nel corso dello svolgimento di un’attività che non ha alcun legame funzionale con la prestazione lavorativa o con le esigenze lavorative dettate dal datore di lavoro;

– è riconducibile a scelte personali del lavoratore, irragionevoli e prive di alcun collegamento con la prestazione lavorativa.

Per malattia professionale si intende una patologia che si sviluppa a causa della presenza di lavori, materiali o fattori nocivi nell’ambiente in cui si svolge l’attività lavorativa (c.d. rischio lavorativo). La malattia comporta un’incapacità al lavoro o la morte del lavoratore.

La malattia professionale è indennizzabile a condizione che:

– sia contratta nell’esercizio delle attività assicurate;

– sia determinata dalla cosiddetta “causa lenta”, cioè una graduale, lenta e progressiva azione lesiva sull’organismo del lavoratore:

– esista un rapporto causale diretto con l’attività lavorativa.

In linea generale, ad ogni evento di danno occorso al lavoratore nell’espletamento delle proprie mansioni lavorative, consegue una tutela previdenziale – assistenziale e, ove siano ravvisabili gli estremi della colpa del datore di lavoro per la violazione delle norme generiche e specifiche sulla prevenzione degli infortuni, può intraprendersi l’azione di risarcimento dei danni “differenziali”.

Il lavoratore, infatti, potrà intentare azione di risarcimento danni nei confronti del datore di lavoro solo quando si tratta di fatti:

– imputabili al datore di lavoro (o ai suoi incaricati o dipendenti: C. Cost. 9 marzo 1967, n.22) che costituiscono reati perseguibili d’ufficio per violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro e di igiene del lavoro o per aver determinato una malattia professionale;

– per cui è stata emessa sentenza di condanna penale;

– in relazione ai quali va liquidato un danno in misura superiore all’ammontare delle prestazioni erogate dall’INAIL (c.d. danno differenziale). Questa condizione, però, non opera in caso di risarcimento del danno biologico, in quanto esso ricomprende il risarcimento della perdita della capacità lavorativa e della lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore (C.Cost. 27 dicembre 1991, n. 485).

La Legge (art. 1, c. 1126, L. 145/2018), tuttavia, ha previsto che è escluso il danno differenziale quando il giudice riconosce che il risarcimento complessivamente calcolato non supera l’indennità a qualsiasi titolo e indistintamente liquidata dall’INAIL all’infortunato o ai suoi aventi diritto.

La domanda di risarcimento andrà intentata dinanzi al Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro con la conseguenza che il rito seguito sarà quello del lavoro, con tutte le sue peculiarità. Vista la particolarità delle materie affrontate e del rito eventualmente azionabile, fondamentale risulterà, pertanto, conferire incarico ad un legale esperto di Diritto del Lavoro e della Previdenza.

Paolo Cuminetti – DSTeam Avvocato Giuslavorista

Infortuni sul lavoro

Sono in costante aumento le notizie riportate dai media riguardanti gli infortuni sul lavoro.
Uno dei casi più recenti è stato quello relativo all’esplosione del fondo di una vasca a seguito della saldatura, con una colla specifica, di una lastra in PVC.
Subito dopo il rifacimento della vasca, l’infortunato, che stava verificando con uno scintillometro l’eventuale presenza di cricche nel perimetro del fondo, è stato investito da pezzi di PVC proiettati dall’esplosione che gli hanno causato fratture e policontusioni per ben 416 giorni complessivi di prognosi.

Quali sono i motivi che hanno provocato l’incidente?

Le cause sono sicuramente molteplici, tra cui: l’utilizzo dello scintillometro, generatore di scintille, in presenza di una miscela esplosiva; la mancata ventilazione della zona dopo l’utilizzo della colla; il mancato rispetto delle indicazioni del manuale di istruzioni della strumentazione, che prevedeva il divieto d’uso in presenza di agenti infiammabili.

Come prevenire, quindi, un incidente di questo tipo?

Affinché episodi simili siano scongiurati in futuro, è necessaria una corretta valutazione del rischio per ogni sostanza utilizzata con l’analisi della relativa scheda di sicurezza; applicare procedure di sicurezza quali quella di ventilare correttamente l’ambiente nel momento in cui si ricorre a sostanze infiammabili così da evitare miscele esplosive; insegnare ad ogni operatore l’importanza di informarsi leggendo le indicazioni presenti nei manuali d’uso e manutenzione delle attrezzature.

In merito all’ultimo punto, il datore di lavoro ha il dovere di adottare i presidi antinfortunistici necessari da permettere al lavoratore di prestare la propria opera in condizioni di sicurezza. Tale obbligo di tutela è articolato e comprende la formazione dei lavoratori, l’adozione delle opportune misure tecniche di sicurezza, il controllo sul corretto utilizzo, in termini di sicurezza, degli strumenti di lavoro e sul processo stesso di lavorazione.

Tutte le figure di garanzia (lavoratori, preposti, dirigenti, datori di lavoro) sono SEMPRE responsabili dell’infortunio qualora lo stesso sia conseguenza dell’inottemperanza di un obbligo previsto dal D. Lgs. 81/2008. Negli ultimi anni la giurisprudenza, civile e penale, tende a coinvolgere ANCHE i Responsabili del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP).

A tale proposito, nel nostro team sono presenti l’Avv. penalista Filippo Nava e l’Avv. civilista Alberto Marotta ai quali vi rimandiamo per ulteriori approfondimenti e domande.

Francesco De Lucia – DSTeam Sicurezza e prevenzione nei luoghi di lavoro

D.LGS. 188/21 la presunzione di innocenza è legge

Troppo spesso negli ultimi anni abbiamo assistito a veri e propri processi mediatici, in cui i soggetti coinvolti in procedimenti penali in corso, talvolta addirittura in fase di indagini preliminari, vengono additati come colpevoli, non solo dagli organi di stampa, ma anche dalle stesse autorità pubbliche.

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del D.lgs. 188/2021, l’Italia, sebbene in ritardo, ha recepito la direttiva UE 2016/343 in materia di giusto processo e presunzione di innocenza dell’indagato/imputato in un procedimento penale.

Se dunque l’art. 1 del decreto esplicita l’ambito applicativo di tale normativa, la portata precettiva è invece contenuta negli artt. 2, 3 e 4 del medesimo decreto.

Ai sensi dell’art. 2, è fatto divieto alle autorità pubbliche (con ciò intendendosi non solo la magistratura, ma anche gli organi dell’esecutivo, così come la Polizia Giudiziaria) di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini e l’imputato, fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. In caso di violazione di detto divieto, salva l’applicazione di sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo al risarcimento del danno arrecato, l’interessato ha diritto di chiedere la rettifica della dichiarazione lesiva.

L’art. 3, invece, detta delle modifiche all’art. 5 del d.lgs. 106/2006 (recante disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del Pubblico Ministero), ed in particolare: le dichiarazioni delle pubbliche autorità relative ad indagati e imputati devono essere fatte solo per comunicati stampa ufficiali o tramite conferenze stampa ma solo in casi di rilevanza pubblica; la diffusione di informazioni su procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono ragioni di interesse pubblico (e sempre che l’indagato e/o l’imputato non siano indicati come colpevoli); gli ufficiali di Polizia Giudiziaria possono rilasciare informazioni sugli atti di indagine compiuti sono se autorizzati dal Procuratore della Repubblica con atto motivato.

L’art. 4, infine, detta modifiche al codice di procedura penale al fine di armonizzare alcune norme di procedura ai “nuovi” principi in tema di presunzione di innocenza, di cui si è detto.

In definitiva, l’intervento legislativo in discorso, sebbene in grave ritardo rispetto all’adozione della direttiva comunitaria a cui si riferisce, risulta certamente un passo avanti verso l’attuazione del giusto processo, mediante il contemperamento di due fondamentali esigenze, ovvero il diritto di cronaca giudiziaria e il diritto di difesa (in senso lato) dei soggetti che vengono indagati o imputati in un processo penale.

Filippo Nava – DSTeam Avvocato Penalista

Diritti reali

Lo studio legale presta la propria assistenza in merito alle azioni poste a difesa della proprietà (azione di rivendicazione, azione di mero accertamento, azione negatoria e azione di accertamento di confini) e a difesa del possesso (azione di reintegrazione e manutenzione).

Siti web

Progettiamo e realizziamo la migliore struttura ipertestuale e di navigazione del vostro sito con una grafica sempre fresca e attuale, affinché sia letto con facilità dai motori di ricerca e gli utenti possano trovarvi immediatamente nel web.

Rilevazione strumentali fonometria, vibrazione, microclima, illuminazione

Il nostro staff di tecnici professionisti esperti nella risoluzione delle problematiche legate al rispetto delle vigenti normative in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, offre un servizio qualificato per la definizione dei fattori dei rischi fisici (rumore, vibrazioni, microclima, illuminazione, ecc.) esistenti negli ambienti di lavoro. Cres Italia esamina le varie situazioni o condizioni lavorative attraverso sopralluoghi e rilevazioni mirate, individuando quando richiesto gli interventi mirati necessari per ricondurre le situazioni a livello di accettabilità o conformi a precise disposizioni di legge, e di controllo per la conservazione dei livelli raggiunti.