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Le implicazioni penali in capo ai tecnici asseveratori

La normativa che disciplina la materia dei c.d. “superbonus” ha introdotto una serie di nuove fattispecie penali, tra cui quella qui in commento delle false informazioni in asseverazioni del tecnico abilitato, di cui all’art. 119, comma 13 bis-1 del D.lgs. 34/2020 come introdotto dall’art. 28 bis, co. 2, lett.a) del D.L. 41/2022.

Ai sensi dell’articolo suddetto, “il tecnico abilitato che, nelle asseverazioni di cui al comma 13 e all’art. 121, co. 1 ter, lett.b), espone informazioni false o omette di riferire informazioni rilevanti sui requisiti tecnici del progetto di intervento o sulla effettiva realizzazione dello stesso, ovvero attesta falsamente la congruità delle spese, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 euro a 100.000 euro. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri la pena è aumentata”.

In realtà detta norma non è totalmente nuova, in quanto è stata mutuata dal nostro Legislatore dall’art. 236 bis del R.D. 267/1942 (c.d. Legge Fallimentare), che appunto punisce (parimenti) le false attestazioni del professionista incaricato di redigere le attestazioni e le certificazioni imposte dalla legge per consentire l’accesso delle imprese alle procedure concorsuali della crisi.

Si tratta di un reato proprio, ovvero che può essere commesso solo da coloro che rivestono la qualifica di “tecnico abilitato”, ovvero quel soggetto abilitato alla progettazione di edifici e impianti nell’ambito delle competenze ad esso attribuite dalla legislazione vigente e iscritto a specifici ordini e collegi professionali (in sostanza ingegneri, architetti, geometri, ognuno nell’ambito delle proprie competenze).

Dal punto di vista oggettivo, l’attività tipica in cui è possibile incorrere nel reato in argomento è quella della asseverazione, ovvero (secondo il Decreto Mise del 6.08.2020) la dichiarazione sottoscritta dal tecnico abilitato, ai sensi e per gli effetti degli art. 47,75 e 76 del D.P.R. 445/2000, con la quale lo stesso attesta che gli interventi trainanti che beneficiano dei vari bonus sono rispondenti ai requisiti previsti dalla legge e che i costi sono congrui rispetto ai costi specifici indicati.

Più in particolare, l’attività di asseverazione consiste, quanto al c.d. ecobonus, nell’attestazione dei requisiti tecnici (e relativa congruità dei costi) che devono essere soddisfatti dagli interventi edilizi affinché possano beneficiare delle agevolazioni; quanto al c.d. sismabonus, nell’asseverazione dell’efficacia degli interventi progettuali al fine della riduzione del rischio sismico.

In sostanza, le condotte punite nell’ambito dell’attività di asseverazione sono: l’esposizione di informazioni false, l’omissione di informazioni rilevanti sui requisiti tecnici del progetto di intervento e sulla effettiva realizzazione dello stesso e la falsa attestazione circa la congruità delle spese.

Generalmente, l’individuazione delle false informazioni non desta particolari problemi qualora le informazioni attengano a dati, misure, qualità, tipologia e consistenza degli interventi o degli edifici sui cui gli interventi stessi vengono effettuati, elementi questi tutti oggettivamente misurabili.

Ben più complessa invece è l’individuazione della condotta incriminata qualora non si tratti di dati fattuali, ma di valutazioni che il soggetto attivo è chiamato a rendere, come ad esempio, la classificazione sismica di un edificio ante intervento e post-intervento, la classe di rischio e gli effetti di mitigazione del rischio.

In tutti questi casi si parla di falso valutativo, poiché la falsità non attiene ad un dato fattuale, ma ad una valutazione espressa da un essere umano.

Al riguardo, vengono in soccorso gli stessi canoni elaborati dalla giurisprudenza in materia di false comunicazioni sociali, ed in particolare:

il criterio del “vero legale”, secondo cui non si incorre in falsità allorquando il dichiarato risponda integralmente ai criteri di legge che regolano la materia; e

il criterio della ragionevolezza, in virtù del quale è punibile sola la dichiarazione falsa che si discosti dai criteri redazionali normativamente previsti per ragioni non razionalmente spiegabili.

Proprio a quest’ultimo criterio si rifà la Suprema Corte di Cassazione (con la sentenza n. 22474/2016) laddove ha ritenuto sussistente, ai fini dell’applicazione del delitto di false comunicazioni (sociali), il falso valutativo nel momento in cui “l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”.

In altri termini, il tecnico abilitato risponderà penalmente del reato in discorso laddove, da un lato esponga dati (falsi) in quanto oggettivamente difformi dalla realtà, ovvero dall’altro compia una valutazione applicando criteri, regole e principi tecnici e/o giuridici difformi da quelli individuati dal Legislatore e dalla Pubblica Amministrazione e qualora questi ultimi non lascino un libero margine di discrezionalità, essendo l’interpretazione univoca ed immediata.

Filippo Nava – DSTeam Avvocato Penalista

Le nuove frontiere del bullismo nell’era di internet

Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Indifesa, in occasione della giornata nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo (tenutasi il 7.2.2021) è emerso che il 68% dei ragazzi intervistati ha dichiarato di aver sentito parlare, o di aver assistito, a fenomeni di cyberbullismo, il 61% di esserne stato vittima, il 42% di aver patito una qualche sofferenza psicologica e il 44% delle ragazze di aver provato disagio per commenti non graditi a carattere sessuale. Di contro, solo l’11% dei ragazzi maschi, e l’8% delle femmine, ha dichiarato di essere stato autore di atti di bullismo o cyberbullismo.

Il fenomeno è dunque grave, perché dilagante e insidioso. E’ all’evidenza un fenomeno dilagante, per via del sempre più diffuso uso (o forse meglio abuso) di internet e dei devices da parte di una platea di ragazzi sempre più giovani. È un fenomeno insidioso, invece, per via del filtro mediatico che il mezzo telematico crea tra l’agente e la vittima, che da un lato porta l’agente a ritenere meno gravi certe azioni (c.d. “meccanismo della deresponsabilizzazione”) e dall’altro infonde nella vittima un senso di malriposta fiducia e sicurezza nei confronti dell’agente. In sostanza, l’agente è portato a pensare che le proprie condotte siano meno violente e quindi meno dannose, quando invece è vero il contrario. La pubblicazione on line di contenuti “offensivi” e, soprattutto, la condivisione da parte di una platea indeterminata di soggetti, rende il diritto all’oblio (cioè il diritto di essere dimenticato, ovvero di non essere ricordato per un fatto specifico) sempre più di difficile da assicurare.

Per questi motivi, il Legislatore ha promulgato la legge n. 71/2017 intitolata appunto “disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”.

Ai sensi della suddetta legge, per cyberbullismo si intende “qualsiasi forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali, in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore, il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo” (Art. 1).

Dunque, ai sensi della lelle n. 71/2017, assurgono a fattispecie legalmente rilevanti ipotesi che non potrebbero rientrare nella già esistente casistica prevista dal nostro codice penale.

In particolare, costituiscono cyberbullismo e sono quindi illeciti, i comportamenti qualificabili come:

il Flaming, ovvero l’invio di messaggi violenti e volgari che mirano a creare contrasti anche sociali (è il caso di chi fa un commento, o una serie di commenti, su un social network al fine di suscitare una sequela sempre più grave di commenti ingiuriosi e minatori, e così causare vere e proprie battaglie verbali on line;

l’Harrasment, ovvero l’invio ripetuto di messaggi offensivi o sgradevoli tali da risultare molesti;

la Denigration, ovvero l’insultare o il diffamare qualcuno on line per mezzo di maldicenze, pettegolezzi, menzogne, a carattere offensivo e crudele;

l’Impersonation, ovvero il furto di identità attraverso l’accesso non autorizzato ad account altrui, utilizzando password o codici segreti;

l’Outing, ovvero il divulgare segreti altrui soprattutto se riguardano tendenze o preferenze a carattere sessuale;

l’Exclusion, ovvero l’atto di escludere intenzionalmente qualcuno da un gruppo (anche virtuale) di persone;

il Cyberstalking, ovvero l’invio ripetuto di massaggi intimidatori contenenti minacce e offese, tali da ingenerare nella vittima un senso di timore e di disagio.

Molto spesso, tuttavia, le suddette condotte, per le modalità con cui vengono poste in essere, assurgono a vere e proprie fattispecie di reato, ed in particolare: le illecite interferenze nella vita privata (Art. 615 bis c.p.), la diffamazione a mezzo stampa (Art. 595 c.p.), gli atti persecutori (Art. 612 bis c.p.), la sostituzione di persona (Art. 494 c.p.), la pedopornografia (Art. 600 ter e 600 quater c.p.) e l’accesso abusivo ad un sistema informatico (Art. 615 ter c.p.). Tutti reati questi che prevedono pene edittali che vanno da 6 mesi di reclusione (per le ipotesi meno gravi) ai 6, e anche 12 anni di reclusione (nel caso della pedopornografia).

Al riguardo, trattandosi di reati di cui possono essere autori anche i minorenni, è bene precisare che il limite dell’imputabilità è stabilito dal nostro codice penale al compimento del 14 esimo anno di età. Ciò significa che ragazzi anche molto giovani possono essere oggetto di indagini preliminari e successivamente imputati in un processo penale avanti il Tribunale per i Minorenni competente per luogo. Parimenti, per i fatti di cyberbullismo, tale limite di età è anche dettato per l’esercizio (in via autonoma) del diritto di sporgere denuncia.

La denuncia è ad oggi il più “forte” strumento messo a disposizione dall’ordinamento per contrastare il fenomeno del cyberbullismo, sia perché la denuncia sporta avanti la Polizia Postale (particolare sezione della Polizia di Stato che si occupa di tali crimini) permette, sia la raccolta di dati (informatici) necessari a fini probatori e quindi anche all’individuazione del soggetto responsabile, sia la cancellazione di pubblicazioni (di testi e immagini) dannose.

Oltre alla denuncia in sede penale, proprio la legge 71/2017 prevede anche un’ulteriore serie di strumenti a disposizione della vittima di atti di cyberbullismo, tra cui:

l’istanza o richiesta da parte del minore ultraquattordicenne (o dei suoi genitori) al gestore dei servizi internet o provider di oscurare, rimuovere o bloccare qualsiasi dato personale del minore diffuso nella rete internet;

l’informativa alle famiglie dei minori coinvolti in atti di bullismo o cyberbullismo e l’adozione di adeguate azioni di carattere educativo ad opera del dirigente scolastico che venga a conoscenza  degli atti di cui sopra;

l’ammonimento ad opera del Questore, il quale può convocare presso di sé il minore responsabile di bullismo o cyberbullismo, unitamente ai propri genitori,  e formalmente ammonire lo stesso affinché non reiteri le condotte già poste in essere.

In conclusione, la legge n. 71/2017 ha certamente il merito di delineare e descrivere alcune condotte che, anche solo per la recente emersione, non potevano essere contemplate dal nostro codice penale, ma altresì di prevedere una serie di interventi che, unitamente alla “classica” denuncia, possono essere adottati per la tutela delle vittime di bullismo e, in particolare, di cyberbullismo.

Filippo Nava – DSTeam Avvocato Penalista

D.LGS. 188/21 la presunzione di innocenza è legge

Troppo spesso negli ultimi anni abbiamo assistito a veri e propri processi mediatici, in cui i soggetti coinvolti in procedimenti penali in corso, talvolta addirittura in fase di indagini preliminari, vengono additati come colpevoli, non solo dagli organi di stampa, ma anche dalle stesse autorità pubbliche.

Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del D.lgs. 188/2021, l’Italia, sebbene in ritardo, ha recepito la direttiva UE 2016/343 in materia di giusto processo e presunzione di innocenza dell’indagato/imputato in un procedimento penale.

Se dunque l’art. 1 del decreto esplicita l’ambito applicativo di tale normativa, la portata precettiva è invece contenuta negli artt. 2, 3 e 4 del medesimo decreto.

Ai sensi dell’art. 2, è fatto divieto alle autorità pubbliche (con ciò intendendosi non solo la magistratura, ma anche gli organi dell’esecutivo, così come la Polizia Giudiziaria) di indicare pubblicamente come colpevole la persona sottoposta a indagini e l’imputato, fino a quando la colpevolezza non sia stata accertata con sentenza o decreto penale di condanna irrevocabili. In caso di violazione di detto divieto, salva l’applicazione di sanzioni penali e disciplinari, nonché l’obbligo al risarcimento del danno arrecato, l’interessato ha diritto di chiedere la rettifica della dichiarazione lesiva.

L’art. 3, invece, detta delle modifiche all’art. 5 del d.lgs. 106/2006 (recante disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del Pubblico Ministero), ed in particolare: le dichiarazioni delle pubbliche autorità relative ad indagati e imputati devono essere fatte solo per comunicati stampa ufficiali o tramite conferenze stampa ma solo in casi di rilevanza pubblica; la diffusione di informazioni su procedimenti penali è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono ragioni di interesse pubblico (e sempre che l’indagato e/o l’imputato non siano indicati come colpevoli); gli ufficiali di Polizia Giudiziaria possono rilasciare informazioni sugli atti di indagine compiuti sono se autorizzati dal Procuratore della Repubblica con atto motivato.

L’art. 4, infine, detta modifiche al codice di procedura penale al fine di armonizzare alcune norme di procedura ai “nuovi” principi in tema di presunzione di innocenza, di cui si è detto.

In definitiva, l’intervento legislativo in discorso, sebbene in grave ritardo rispetto all’adozione della direttiva comunitaria a cui si riferisce, risulta certamente un passo avanti verso l’attuazione del giusto processo, mediante il contemperamento di due fondamentali esigenze, ovvero il diritto di cronaca giudiziaria e il diritto di difesa (in senso lato) dei soggetti che vengono indagati o imputati in un processo penale.

Filippo Nava – DSTeam Avvocato Penalista